Il recente raddoppio del periodo a disposizione in caso di secondo acquisto con le agevolazioni fiscali “prima casa” vale sia per l’obbligo di cessione dell’immobile pre-posseduto sia per il riconoscimento del credito d’imposta. Il contribuente che nel 2024 ha acquistato una seconda “prima casa” con l’impegno a rivendere l’immobile pre-posseduto ha a disposizione due anni e non più un anno, come precedentemente previsto, per assolvere l’obbligo di rivendita (occorre la stipula del definitivo atto di compravendita). Inoltre, il contribuente non perde neanche il relativo credito d’imposta, disciplinato dall’art. 7 della legge 448/1998, con cui recupera l’imposta di registro o l’Iva corrisposta per il primo trasferimento immobiliare. Pertanto, anche nel caso in cui l’interessato risulti titolare di un’altra abitazione acquistata usufruendo dello stesso beneficio, lo sconto d’imposta è applicabile se lo stesso si impegna ad alienare l’immobile preposseduto entro due anni dal nuovo acquisto. Il termine di due anni è stato introdotto dalla legge di bilancio 2025. A chiarirlo è l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 197 del 30 luglio 2025, secondo la quale la norma che concede più tempo agli acquirenti per vendere una precedente casa “agevolata” non fissa un limite temporale di applicazione agli acquisti effettuati dal 1° gennaio 2025, quindi il nuovo termine di due anni è applicabile anche alle compravendite per le quali, come nel caso dell’interpello, al 31 dicembre 2024 era ancora pendente il termine di un anno per procedere all’alienazione. L’agenzia riconosce il nuovo termine di due anni anche per il credito di imposta nel caso in cui il contribuente proceda al nuovo acquisto con le agevolazioni “prima casa” ancor prima di vendere l’abitazione agevolata pre-posseduta. Anche se la modifica normativa introdotta dalla legge di bilancio 2025 non riguarda la formulazione dell’art. 7 della legge 448/1998, l’Agenzia osserva che il fine di entrambe le disposizioni (agevolazioni “prima casa” e credito d’imposta) è incentivare il mercato immobiliare anche tramite sostituzione della “prima casa”. Di conseguenza, ritiene che anche nel caso in cui il riacquisto della nuova “prima casa” preceda l’alienazione dell’abitazione pre-posseduta, il maggior termine di due anni per la rivendita non sia di ostacolo alla fruizione del credito d’imposta per il nuovo acquisto, a condizione che l’immobile agevolato pre-posseduto venga venduto entro due anni dalla nuova compravendita. In conclusione, il credito d’imposta è concesso al contribuente in via provvisoria a condizione che l’abitazione agevolata preposseduta venga venduta entro due anni dal nuovo trasferimento immobiliare. In caso contrario l’acquirente decade dall’agevolazione “prima casa’” di cui ha beneficiato per il riacquisto e, a cascata, perde il diritto al credito. Il termine per il trasferimento della residenza in caso di acquisto della “prima casa” Il termine per il trasferimento della residenza per l’acquisto della “prima casa” oggetto di interventi agevolabili dal Superbonus non è di 18 mesi ma di 30 mesi a decorrere dal termine scaturito dalla sospensione di cui all’art. 24 del d.l. 23/2020 e successive modificazioni, a seguito dell’epidemia da Covid 19, e non dalla data di stipula dell’atto di compravendita dell’immobile. In sostanza c’è tempo fino al 30 aprile 2026. Così si è espressa l’Agenzia delle Entrate nella risposta a interpello 230 del 3 settembre 2025, rammentando che in merito all’operatività di tale sospensione la circolare 13 aprile 2020, n. 9/E, paragrafo 8.1, successivamente supportata dalla circolare del 29 marzo 2022, n. 8, ha chiarito, al paragrafo 1, che tra i termini per i quali si rende applicabile la sospensione di cui sopra rientrano: a) il periodo di 18 mesi dall’acquisto della prima casa entro il quale il contribuente deve trasferire la residenza nel comune in cui è ubicata l’abitazione; b) il termine di un anno entro il quale il contribuente che ha trasferito l’immobile acquistato con i benefici “prima casa” nei cinque anni successivi alla stipula dell’atto di acquisto deve procedere all’acquisto di un altro immobile da destinare a propria abitazione principale (ossia deve trasferire nella nuova casa la propria residenza); c) il termine di un anno (ora di due anni) entro il quale il contribuente deve procedere alla vendita dell’abitazione preposseduta, purché quest’ultima sia stata, a sua volta, acquistata usufruendo dei benefici “prima casa”. In sostanza, se un soggetto residente a Milano ha comprato un’abitazione Roma con le agevolazioni “prima casa” nel periodo di sospensione per il Covid 19 e nella quale sono stati effettuati lavori “Superbonus” è previsto anche che: a) il termine per portare la residenza a Roma (e non nella casa acquistata, in quanto si tratta del primo acquisto agevolato) non è di 18 mesi (come stabilito dal testo unico sull’imposta di registro) ma di 30 mesi; b) il termine di 30 mesi è calcolato non dalla data di stipula dell’atto definitivo di compravendita, ma dal 30 ottobre 2023, e quindi egli avrà tempo fino al 30 aprile 2026. Se l’abitazione a suo tempo acquistata non è più idonea a soddisfare l’interesse della famiglia Se l’abitazione a suo tempo acquistata risulta insufficiente a soddisfare l’interesse della famiglia e si presenta la necessità di cambiarla con altra più ampia usufruendo nuovamente delle agevolazioni “prima casa”, la prima casa va, comunque, venduta anche se non più oggettivamente idonea, per le ridotte dimensioni, ad essere destinata ad abitazione, ad esempio per l’incremento del nucleo familiare. Questo è quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sez. trib., con sentenza del 3 settembre 2025, n. 24478. Osserva il Collegio che il d.P.R. n. 131/1986 indica quale presupposto dell’agevolazione “prima casa” la non titolarità (la cosiddetta “impossidenza”), da parte dell’acquirente a) “dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare”; “dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni su tutto il territorio nazionale”. L’elemento impediente del citato decreto è la mera “prepossidenza” di un’altra casa di abitazione nel Comune (lett. b), nello Stato (lett. c). Sul punto la medesima Corte ha avuto modo di chiarire, che «…non si può ritenere d’ostacolo all’applicazione delle agevolazioni “prima casa” la circostanza che l’acquirente dell’immobile sia al contempo proprietario d’altro immobile (acquistato senza agevolazioni nel medesimo comune) che, per qualsiasi ragione sia inidoneo, per le ridotte dimensioni, ad essere destinato a sua abitazione. Da ciò consegue che il previo riconoscimento del beneficio prima casa in occasione di un precedente acquisto di un immobile costituisce impedimento insuperabile al riconoscimento dell’ulteriore beneficio al momento di un acquisto di altro immobile» (Cass. n. 24657 del 2018). Il venditore ottiene il certificato di agibilità solo dopo la vendita dell’immobile La Corte di Cassazione, con la sentenza 30 luglio 2025, n. 21937, offre importanti chiarimenti riguardo alla responsabilità del venditore in caso di mancanza di agibilità di un immobile oggetto di compravendita. La Corte ha stabilito che l’assenza del certificato di agibilità non comporta automaticamente la risoluzione del contratto di vendita. È necessario, infatti, che il difetto di agibilità incida sulla sicurezza, salubrità o destinazione d’uso dell’immobile, come previsto dagli articoli 1490 e 1497 del codice civile. In particolare, l’art. 1490 c.c. stabilisce che il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia esente da vizi che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore o la rendano inidonea all’uso cui è destinata; l’art. 1497 c.c. dispone che quando la cosa venduta non ha le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui è destinata, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, purché il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi. La Cassazione, sul punto, osserva che: a) il certificato di abitabilità è essenziale ai fini della normale commerciabilità del bene, ma la sua mancata consegna non costituisce un inadempimento del venditore che ne abbia ottenuto il rilascio successivamente; in tali casi non è configurabile l’ipotesi di vendita di aliud pro alio; b) la semplice mancanza del certificato, senza carenze sostanziali di agibilità, non genera automaticamente un danno risarcibile; il danno deve essere dimostrato in concreto (es. ridotta commerciabilità o diminuzione del valore dell’immobile, spese per sanatorie edilizie). Pertanto, la mancanza di agibilità diventa rilevante solo se provoca un pregiudizio concreto all’acquirente, il quale deve dimostrare come tale mancanza influisca sulla fruibilità dell’immobile. In precedenza, la Suprema Corte aveva sancito che qualora il difetto del rilascio del certificato di agibilità sia riconducibile ad una carenza meramente formale, ossia alla mancata attivazione della pratica amministrativa diretta ad ottenere il rilascio, e non già a carenze di natura sostanziale, strutturali e funzionali (sanabili o insanabili), ossia alla mancanza dei requisiti igienico – sanitari e di sicurezza o inerenti al risparmio energetico, l’inadempimento imputabile al venditore, ai sensi dell’art. 1477, comma 3, c.c., consistente nell’omissione dell’obbligo di rilasciare il relativo documento, non incide sulla commerciabilità del bene (in senso proprio), bensì sulla sola necessità di doverne curare la pratica, con l’esborso dei relativi oneri (Cass. 22/4/2025, n. 10449). In tema di responsabilità del mediatore Il mediatore ha l’obbligo di effettuare la preventiva verifica riguardo alla sussistenza di eventuali iscrizioni o trascrizioni sull’immobile. Con ordinanza 10 aprile 2025, n. 9395, la Corte di Cassazione è tornata sul tema della responsabilità del mediatore confermandone la sussistenza laddove si accerti che la mancata conclusione del contratto definitivo di compravendita dell’immobile è stata determinata dall’omesso adempimento all’obbligo di informazione, gravante sul venditore e sul mediatore, in ordine all’esistenza di iscrizione ipotecaria sul bene. Secondo la Corte, il dato che il preliminare contenga la garanzia della parte promittente venditrice di trasferire l’immobile libero da pesi e il fatto che la parte promissaria acquirente, scoperta l’esistenza di un’ipoteca, abbia manifestato l’interesse a concludere il contratto, tanto da eseguire la diffida ad adempiere alla sua cancellazione, non comporta in sé che il mediatore avvia adempiuto all’obbligo di informazione su di lui gravante; non comporta neppure che la promittente venditrice sapesse dell’esistenza dell’iscrizione di ipoteca al momento della stipulazione del preliminare, così da essere posta in condizione di comprendere che la garanzia contenuta nel preliminare si riferisse a una specifica ipoteca già esistente in quel momento, anziché a pesi che eventualmente fossero andati a gravare sull’immobile nel periodo intercorrente fino alla stipula del definitivo. Per altro verso, sostiene la Suprema Corte, non può essere posto in dubbio il principio, al quale si deve dare continuità, secondo il quale il mediatore, sia quando agisca in modo autonomo -mediazione tipica-, sia su incarico delle parti – mediazione atipica- è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza e perciò a riferire alle parti le circostanze, conosciute o conoscibili secondo la diligenza qualificata ex art. 1175 cod. civ., propria della sua categoria, idonee a incidere sul buon esito dell’affare, senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo – per quanto qui interessa- le circostanze afferenti alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile (cfr. Cass. 16/5/2022, n. 15577; Cass. 28/10/2019, n. 27482, con specifico riguardo alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile; cfr. altresì, nello stesso senso, con riguardo all’esistenza di irregolarità urbanistiche o edilizie non sanate, Cass. 2/5/2023 n. 11371, e, con riguardo alle informazioni sulla classe energetica dell’immobile, Cass. 9/8/2022 n. 24534). In tema di diritto alla provvigione In caso di recesso di una delle parti, al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del contratto, ai sensi dell’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile prefissato dalle parti, ossia la conclusione di un valido contratto preliminare di compravendita. È invece da escludere il diritto alla provvigione qualora tra le parti si sia costituito soltanto un vincolo idoneo a dare impulso alle successive articolazioni del procedimento di conclusione dell’affare, come nel caso di una proposta d’acquisto che rinvii al successivo contratto preliminare o “compromesso” l’obbligo di stipulare il definitivo atto di compravendita, circostanza che determina, con l’accettazione da parte del venditore, la conclusione di un preliminare di preliminare nullo per mancanza di causa, e, pertanto, inidoneo a far sorgere il diritto alla provvigione (Cass. 26/1/2023, n. 2385). Pertanto, la proposta irrevocabile deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto da concludere, in modo che, con l’adesione della parte destinataria, sia possibile stipulare un valido contratto preliminare senza la necessità di un’ulteriore pattuizione. In caso contrario, invece, essa assumerà carattere di mero accordo preparatorio alla conclusione del contratto preliminare, che è soltanto una parte dell’intero iter formativo del futuro contratto, nel quale confluiranno comunque gli elementi già concordati con la proposta (Cass. 12/4/2023, n. 9694). Sempre in tema di diritto alla provvigione ex art. 1755, comma 1 c.c., è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, né che l’intervento successivo di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza. In altri termini, va escluso che il diritto del mediatore sorga solo perché questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, in quanto di per sé, la semplice messa in relazione delle parti ad opera del mediatore non è sufficiente ad integrare l’efficienza causale adeguata secondo quanto previsto dal citato art. 1755, comma 1, c.c. (Cass. 2/2/2023, n. 3165). I criteri di riparto delle spese straordinarie tra venditore e compratore La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24236 del 30 agosto 2025, affronta nuovamente la questione dei criteri di ripartizione delle spese tra il venditore e il compratore di un immobile posto all’interno di un edificio condominiale e conferma l’orientamento consolidato che, in tema di riparto delle spese condominiali per l’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione sulle parti comuni, laddove, successivamente alla delibera assembleare che abbia disposto l’esecuzione di tali interventi, sia venduta un’unità immobiliare sita nel condominio, i costi di detti lavori gravano su chi era proprietario dell’immobile compravenduto al momento dell’approvazione di detta delibera, la quale ha valore costitutivo della relativa obbligazione, anche se poi le opere siano state, in tutto o in parte, realizzate in epoca successiva all’atto traslativo. Peraltro è acclarato che l’art. 63 comma 2 disp. att. cod. civ., nel regime previgente rispetto alla legge n. 220 del 2012, delinea, a carico dell’acquirente, un regime di responsabilità solidale per il pagamento degli oneri condominiali dovuti dall’alienante, limitata al biennio antecedente all’acquisto, che opera solo nei rapporti esterni con il condominio, ma non anche nel rapporto interno tra acquirente e alienante, sicché, in tale rapporto, salvo che non sia diversamente convenuto dalle parti, l’acquirente risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte successivamente al momento dell’acquisto e, qualora sia chiamato a rispondere di quelle sorte in epoca anteriore, ha comunque diritto di regresso nei confronti del suo dante causa.
Dott. Michele Pizzullo
Ufficio legale Fimaa